mercoledì 11 giugno 2014

Poppi 7 giugno 2014, Abbazia di San Fedele. XXXIX Premio Letterario Casentino. Intervento del Prof Andrea Pellegrini per commentare il libro Le orme del lupo.



Sul far della sera un colpo secco violò l’agreste silenzio. La somarina girò appena la testa all’indietro e lo vide rantolante a terra. Attorno campi colorati di giallo dalla siccità e altri color grigio sabbia con striature marroni e rossastre: su questi ultimi aveva infierito l’aratro. Per trovare un po’ di colore verde lo sguardo doveva scalare le querce, ma anche sui loro rami robusti il marroncino stava prendendo il sopravvento. La chioma del maestoso ciliegio era rossiccia, gialla e marrone chiaro. Poche le foglie ancora verdi.



Si potrebbe credere, leggendo un frammento simile, trattarsi di una pagina del grande Federigo Tozzi. Un momento rubato al romanzo Con gli occhi chiusi, a Tre croci o al Podere, del grande scrittore senese. Ed è invece uno dei tanti baleni che si possono incontrare immergendoci fra i quindici racconti di Armido Malvolti che si trovano riuniti insieme sotto il titolo di: Le orme del lupo. Come Tozzi, oltre a forti chiaroscurali espressionismi paesaggistici, e oltre ad una minuziosa dettagliatissima puntualità toponomastica, anche Malvolti si trova continuamente a utilizzare nella propria scrittura le forme tradizionali del realismo, e, come Tozzi, lo fa anche lui per esprimere una sua particolare visione della realtà. In questo caso, ciò che più colpisce l’animo e le attenzioni dell’autore è il mondo dei bambini, fra odii e dolcezze e fra eterne divisioni maschi/femmine, ma è anche il mondo dei paesi appenninici, con le loro storie inesauribili, da non smettere mai di raccontare e da non dimenticare mai. Si dimentica spesso, noi italiani, la cospicua presenza che possiamo vantare di scrittori di novelle. Ai nomi più noti e più facili da ricordare, come Boccaccio, Verga, Pirandello, Svevo, si deve infatti aggiungere una miriade di penne straordinariamente dedite proprio alla scrittura di racconti: quelle per esempio di Buzzati e Calvino, di Rodari o Silvio d’Arzo, di Moravia naturalmente, ma anche quelle di Gianni Celati e di Pier Vittorio Tondelli, non meno che di Achille Campanile, del bravissimo Claudio Piersanti, di Carlo Lucarelli e del troppo presto scomparso Antonio Tabucchi. A questi nomi si deve oggi aggiungere anche il fruttuoso impegno di Armido Malvolti, intento questa volta a raccontare in forma breve le sue storie. A dirla con il grande Raymond Carver, “un buon racconto vale quanto una dozzina di cattivi romanzi”, e smarrirsi nella selva di storie di Malvolti vale altrettanto. Perché significa andare, di volta in volta, incontro alla realtà della vita così com’è e non come si vorrebbe che fosse senza sottrazioni e senza mai sottrarsene per niente al mondo. Questo è quello che fa Malvolti. Non si sottrae: non alle storie violente nel sottofondo di intensi paesaggi, non ai fallimenti umani da guarire, ai lutti infiniti, agli stupri, alle miserie degli immigrati, non ai delitti o alla bruttezza della guerra né alle violenze subdole che esistono fra gli adulti, ma anche fra i bambini più amabili. “Scrivere prosa” ha suggerito Italo Calvino “non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca d’un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile”. E Malvolti mette in pratica tutte queste cose nella sua scrittura. Quando racconta per esempio della morte di Peppo, ucciso dal parroco del paese poiché ritenuto un indemoniato. Le mette in pratica - restando sempre, il suo tratto, lucido e impersonale -, quando narra le storie di Cri, di Benito e di Paf, litigiosi per una squadra di pallone che alle ragazze è preclusa. Fino a dar vita a pagine piene di sentimento: come quelle di un padre che, in lutto, senza più una ragione e deciso a farla finita, grazie alla poesia del Carducci, alla bellezza della Maremma e all’incontro fatale con una ragazza altrettanto smarrita, si riscuote per rivivere l’ultimo momento felice della sua vita. L’autore è “sempre nascosto”, come ha scritto Neuro Bonifazi nell’introduzione, e “non esplicito, e la sua capacità immaginativa e la sua curiosità fantasiosa è tutta nelle parole e per le ‘parole’”. Cosa che accade per esempio nel bel racconto che dà il titolo al libro, Le orme del lupo, dove due ragazzini - uno buono e l’altro disinvolto - smarriti nei boschi dell’Appennino si gettano in un’avventura più pericolosa dei giochi soliti, incontrando un lupo violento e aggressivo, ma anche Benedetta, una lupa capace di salvare e di accudire come farebbe una madre: “quello era un lupo cattivo” dice uno dei bambini, “Benedetta invece è buona. Mi ha dato il suo calore mentre dormivo, mi ha comunicato la sua amicizia leccandomi il collo, mi ha guidato alla fonte perché potessi dissetarmi, mi ha spinto e tirato sul Cusna per farmi ammirare le meraviglie del creato”. Così scrive Armido Malvolti. Mai fiabesco e sempre invece vicinissimo alla realtà dei fatti e del mondo. Scrittore pluripremiato per i cinque romanzi che ha pubblicati non corso di questo ultimo decennio, Malvolti dedica questi racconti al suo caro Appennino, ma li dedica soprattutto ai suoi piccoli studenti, ai ragazzi delle Scuole Elementari Giovanni XXIII di Casstelnovo ne’ Monti. I veri grandi ispiratori di queste Orme del lupo.

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